a cura di Paola Verde e Antonio Dell’ Isola
B-SIDE CITY
a cura di Paola Verde e Antonio Dell’ Isola
Antonio Dellì Isola, Nicola De Napoli, Orticanoodles, Senso, Simone Paloni, Paola Verde, Davide Prato, Maurizio Molteni, Elisabetta Chiarelli, Nino Romeo, Eleonora Zuin, Guglielmo Trupia, Paolo Robaudi.
06.11.07 / 27.11.07 CENTRO CULTURALE ZEROLOGICO, via Anfossi 18, Milano
L’OLTRE DELLA METROPOLI
Non c’è nulla di inumano in una città tranne la nostra umanità (Georges Perec)
Da sempre la città è stata posta come materiale poetico al centro di una moltitudine ininterrotta di sguardi; artisti, poeti, letterati hanno, chi a tratti, chi in maniera ossessiva,raccolto l’anima e il respiro della metropoli, ne hanno indagato le corrispondenze con la propria vita, con il proprio porsi nel mondo; ne hanno catturato il “soffio vitale”, l’irriproducibile e l’effimero di una sensazione.
Lo sguardo diviene visione di una profondità, molto spesso sublime, anche e soprattutto tramite quegli elementi rispetto ai quali siamo continuamente a contatto; prospettive,segnali stradali, palazzi, strade, manifesti pubblicitari e sconosciuti, diventano contemporaneamente il tessuto primo per indagare quel lato della città che cade lontano dal senso comune, che assume le dimensioni della scoperta, dell’epifania, di una messa in luce di un livello inspiegabilmente emozionale, sostrato dell’appartenenza ed allo stesso tempo del rifiuto del vivere secondo i dettami di uno schema dichiaratamente comune.
L’anima della città, che resta nascosta ai tragitti e allo sguardo di chi compie i percorsi alienanti del quotidiano, si svela come un ricettacolo di sensazioni e visioni a coloro che riescono a sbucciare l’anima impenetrabile delle azioni meccaniche, a chi “sente” e relaziona la propria avventura con la metropoli, a chi, come scriveva Marc Augè, sfugge dal vincolo dei passaggi obbligati, e, al contrario, si lascia andare verso la possibilità situazionista della deriva, del gioco, della vertigine di un percorso “coscienziale”che ha come risultante uno sviluppo poetico.
Ogni metropoli ha un’anima, un respiro, un’aura quasi magica. A questo proposito, celebre è l’ampolla realizzata da Marcel Duchamp contenente l’aria di Parigi, emblematico oggetto capace di mettere in luce l’invisibile ed impalpabile atmosfera che si respira tra quei chilometri quadrati di mondo dove si è più letto, scritto e parlato.
Scriveva Italo Calvino nel romanzo “Le Città invisibili”: “D’una città non godi delle sette o settantasette meraviglie, ma quello che più s’avvicina a ciò che ti aspettavi da essa”; così lo sguardo sulla città diviene l’ampliarsi dell’orizzonte interiore, del desiderio, e il contatto con essa diviene stupore, armonia, fusione di tutti quegli stati d’animo “simultanei” teorizzati dal filosofo Henry Bergson.
E così, anche oggi la metropoli risulta il terreno privilegiato per mettere in luce un percorso che tenga presente il proprio luogo d’origine, dove le luci arancione e i rumori della strada oltre i propri muri non possono essere scissi dall’esistenza, proprio come la storia e la memoria non possono essere scissi dalla città; proprio perché noi stessi siamo la somma di una serie di esperienze, la città ci appartiene come specchio del nostro tempo, amalgama unico insieme agli avvenimenti e alle corrispondenze con la vita.
La metropoli diviene così non solo un’insieme di concrezioni quotidiane di difficile digestione, ma una frattura aperta nella quale tuffarsi per poter scorgere un angolo di meraviglia, lasciandosi trasportare dal caso, dalla coscienza, dalle molteplici possibilità di vedere attraverso innumerevoli interpretazioni.
(Matteo Bergamini)
Guardare e non vedere, passare distratti correndo verso la destinazione del “Devo…”quotidiano e non osservare la moltitudine di particolari, quella “foresta di simboli”, di cui è piena la città. La nostra città.
Possediamo un luogo nel momento in cui vi abitiamo? Quando calpestiamo senza pregiudizi il suo suolo? Quando i nostri documenti ci raccontano da dove veniamo? Forse. Più probabilmente la nostra città è quella che sentiamo dentro, quella che ci accoglie in tutti i momenti in cui vorremmo fuggire anche da noi stessi e dalle nostre gabbie.
Ecco che entra in gioco l’arte: saper esprimere quello che si vede attraverso quello che si sente.
Nel cuore, nello stomaco, negli occhi, nel respiro affannato dopo una corsa senza motivo, senza razionalità, l’arte diventa il mezzo unico per raccontare di sé, dei propri luoghi interiori, quelli che non si “vedono” ma si “guardano”a lungo.
Quando l’abitudine leviga le punte di attenzione del nostro sguardo, nel momento in cui non ci rendiamo più conto di dove siamo realmente, ecco che gli artisti, che mi piacerebbe chiamare i “visionari”, strappano via, a volte con violenza altre con estrema dolcezza, quel velo di Maya, quella nebbia del sentire, che non ci permette di riconoscere la bellezza dei luoghi.
E non solo. I visionari, riescono a creare bellezza anche laddove non avremmo mai creduto di poterla vedere, dove il nostro cuore aveva rinunciato a guardare, dove il nostro sentimento non aveva forse avuto il coraggio di scoprire quanta sofisticata meraviglia esiste a pochi passi dal nostro mondo del dovere. Coraggio, si, perchè per essere visionari, artisti nel 2007, ci vuole fegato, ci vuole cuore e cervello, è necessario un bel apparato di organi resistenti, purpurei e vitali che aiutino a resistere agli assalti del banale, della noia che corrode gli entusiasmi, al perpetuo rigenerarsi dell’uguale: fuggire dalla ruggine della creatività, del bello, del nuovo.
Questa collettiva vuole aprire un varco a tutti coloro che vogliono guardare ciò che hanno già visto, vuole diventare l’ariete pesante e colorato che infrange i portoni dell’utopia. Qui i sogni si realizzano, qui il bello ha la sua casa, qui la vostra anima più profonda e primitiva, più giovane e sana, più battagliera ed orgogliosa, busserà con forza alla porta della vostra vita e vi chiederà se siete davvero sicuri di sapere dove siete, cosa state cercando e cose vorreste davvero.
(Federica Giordani)