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  Unscheduled  # 1

a cura di Rossella Moratto



La tecnocultura è leitmotiv che lega le immagini della doppia personale di Mattia Zoppellaro e Paola Verde alle installazioni sonore di Massimiliano Nazzi.

Le fotografie di Paola Verde e Mattia Zoppellaro sono un’incursione nella cultura rave: ritraggono luoghi, oggetti e persone portatori di forme di creatività spontanea e non omologata, che si riappropriano temporaneamente di aree periferiche e  marginali trasformandole in zone liberate nella dimensione precaria della festa collettiva, intesa come  momento di condivisione e socializzazione trasversale che si reinventa ogni volta per poi dissolversi e riapparire, sempre diversa, in altri spazi. Una dimensione che non ha una progettualità politica se non la rivendicazione del diritto al piacere, allo svago e alla  condivisione sottratta al controllo sociale: ed è questa esigenza, che  apre uno squarcio nella routine quotidiana dominata dai ritmi imposti del consumo e del lavoro, ad avere una valenza antagonista e sovversiva. Una forma di ritualità collettiva che nella nostra società globalizzata è sparita o svilita in un surrogato di aggregazione di facile consumo completamente svuotato di senso.

Mattia Zoppellaro è un ritrattista raffinato e sensibile: colpisce la sua capacità di restituire il carattere del personaggio, le espressioni e la sua intensità emotiva. Zoppellaro predilige un’impostazione classica: posa  a mezzo busto, in genere su sfondo neutro, sguardo fisso nell’obiettivo. È una galleria di volti a dimensioni reali, di forte impatto: occhi che guardano e scrutano lo spettatore, coinvolgendolo in un incontro ravvicinato, diretto e senza mediazioni.

Contemporary Art | Via San Tomaso 92 | Bergamo

I volti e corpi riscritti e ricoperti di segni di un nuovo tribalismo - tatuaggi e piercing -  sono portatori di messaggi che rivendicano nuove identità e appartenenze, icone di una bellezza antigraziosa, consapevole della propria autenticità e  unicità. La ricerca dell’artista va al di là del dato di costume, è invece un’indagine  sulle molte sfaccettature dell’animo umano.

Paola Verde, invece, si addentra nelle fabbriche dismesse, nelle cattedrali sconsacrate del lavoro abbandonate ai margini del paesaggio urbano. Sono proprio i margini, i confini e le periferie che interessano l’artista in quanto frammenti di memoria urbana in cui si stratificano vissuti e storie. Da architetto, l’obiettivo dell’artista riesce a tradurre nella bidimensionalità la spazialità di questi ambienti vuoti, a  restituirne l’atmosfera e la carica emotiva palpabile che li pervade. Nelle sue immagini, dense di suggestione, la sottrazione del colore e le inquadrature con frequenti tagli obliqui e fughe prospettiche esaltano il rigore, semplice ed essenziale, dell’architettura con esiti ben lontani dalle vedute metafisiche: la concretezza dei luoghi  è ribadita dagli oggetti inutili, dai rifiuti,  bottiglie  e lattine disseminati sul pavimento e dalla presenza di  qualche indistinta figura, non sappiamo se in attesa o dopo la conclusione dell’evento.

Ed è il residuale, lo scarto – oltre alla musica- il fulcro dell’economia pirata basata sul do it yourself e sul riciclo e il riutilizzo creativo - che avvicina le fotografie al lavoro di Massimiliano Nazzi. L’artista realizza installazioni composte da materiali di recupero - vecchi elettrodomestici, radio, transistor, microfoni, cavi, scarti metallici e plastici – assemblati ed amplificati, che si azionano producendo suoni ripetitivi, ossessivi e antimelodici. Eredi impazziti delle macchine inutili di Munari, variazioni meccaniche dei Merzbau di Schwitter, declinazioni contemporanee degli  intonarumori di Russolo emancipati dalla mimesi del suono della città, i lavori di Nazzi, come Eject 1.1, sono l’espressione concreta degli oggetti che producono una musica che si fa da sola ed è il risultato dell’interazione imprevedibile tra il rumore e le interferenze magnetiche ed elettromagnetiche. A volte l’artista utilizza le installazioni come strumenti in performance che  rielaborano originalmente, in modo impuro e low-fi, la matrice techno-industrial, come Untitled, un pendolo che oscilla insensatamente e pericolosamente fuori tempo. Il frastuono è anche una critica al sistema dell’informazione dominante: Eject 2.0, è un totem fatto con un bidone, un carrello della spesa e vecchie radio, transistor e un televisore accesi contemporaneamente e sintonizzati su varie emittenti: la sovrapposizione e l’interferenza sonora annullano il messaggio rendendo impossibile la comunicazione. Non musica, ma rumore: l’installazione è metafora di una comunicazione incomunicante, falsamente accattivante come lo sfavillio della luce che proviene dallo schermo televisivo, ma privata di senso, che si compra e si getta via come qualsiasi oggetto di consumo.


Rossella Moratto